tratto da I buoni non hanno via d'uscita
venerdì 7 dicembre 2012
domenica 2 dicembre 2012
lunedì 26 novembre 2012
domenica 18 novembre 2012
domenica 4 novembre 2012
Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più di David Foster Wallace
Diversi giorni dopo Murray mi
chiese se sapevo qualcosa di un’attrazione turistica nota come il fienile più
fotografato d’America. Guidammo per ventidue miglia nella campagna intorno a
Farmingtown. C’erano prati e alberi di melo. Recinzioni bianche si srotolavano
sui campi. Ben presto apparvero le prime insegne. IL FIENILE PIU’ FOTOGRAFATO
D’AMERICA. Ne contammo cinque prima di arrivare sul posto… Camminammo per un
sentierino fino alla collinetta che serviva ad ottenere una vista migliore.
Tutti avevano macchine fotografiche; c’era qualcuno con treppiede, lenti
speciali, filtri. Un uomo dentro un baracchino vendeva cartoline e diapositive
del fienile, fotografato proprio da lì. Ci mettemmo vicino a un boschetto e
guardammo i fotografi. Murray mantenne un silenzio prolungato, ogni tanto
scribacchiava qualcosa su un taccuino. Alla fine disse: “ Nessuno vede il
fienile.” Seguì un lungo silenzio. “ Una volta che hai visto le insegne per il
fienile, diventa impossibile vedere il fienile”. Si ammutolì di nuovo. Persone
con macchine fotografiche scendevano dalla collinetta , subito rimpiazzate da
altri. “ Non siamo qui per catturare un’immagine. Siamo qui per mantenerne una.
Lo capisci, Jack? E’ una accumulazione di energie senza nome “. Ci fu un altro
lungo silenzio. L’uomo nel baracchino vendeva cartoline e diapositive. “
Essere qui è una specie di resa spirituale. Vediamo solo ciò che vedono gli
altri. Le migliaia che sono stati qui nel passato, coloro che verranno in
futuro. Abbiamo accettato di essere parte di una percezione collettiva. Questo
letteralmente colora la nostra visione. In un certo è un’esperienza religiosa,
come ogni turismo”. Ne derivò un altro silenzio. “ Faccio fotografie del fare
fotografie “, disse.
sabato 3 novembre 2012
Considera l'aragosta di David Foster Wallace
Confesso di non aver mai capito perché tante persone siano
convinte che una vacanza divertente significhi mettersi infradito e
occhiali da sole e avanzare come formiche in un traffico infernale fino a
stazioni turistiche rumorose, calde e affollate, per assaggiare un “sapore
locale” che è per definizione rovinato dalla presenza di turisti. Questo potrebbe (come continuano a sottolineare i
miei compagni di festival) essere tutta una questione di personalità e gusti
precostituiti: il fatto che non mi piacciano le stazioni turistiche significa
che non capirò mai la loro attrattiva e di conseguenza sono forse la persona
meno indicata a parlarne (della presunta attrattiva). Ma visto che comunque
questa nota a piè di pagina quasi certamente non sopravvivrà all’editing del
giornale, ecco qua: Per come la vedo io, probabilmente fa davvero bene all’anima
essere un turista, anche solo se una volta ogni tanto. Non bene nel senso di
rigenerante o ravvivante, però piuttosto nel senso di truce, sguardo di
ghiaccio, guardiamo-in -faccia-la realtà-e-ritroviamo-il-modo-di-affrontarla. La
mia esperienza personale non è stata che viaggiare per il Paese ti apra la
mente o ti rilassi, né che i cambiamenti radicali di posto e contesto abbiano
un effetto salutare, bensì che il turismo internazionale sia radicalmente
asfissiante, e umiliante nel modo più duro possibile: ostile alla mia fantasia
di essere un individuo vero, di vivere in qualche modo al di fuori e al di
sopra di tutto. ( E adesso la parte che i miei compagni trovano particolarmente
infelice e repellente, un modo certo per rovinare il divertimento dei viaggi di
piacere:) Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri americani
dell’ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai
avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare,
per mero ontologia, quell’incontaminatezza che si è andati a sperimentare.
Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi
non –economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli
ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se
stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente
rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta.
sabato 13 ottobre 2012
Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace
C’è qualcosa di inequivocabilmente capronesco in un turista
americano che si muove all’interno di un gruppo. Hanno una certa flemma
avida. Anzi, abbiamo. Nel porto diventiamo automaticamente
Peregrinatores Americani, Die Lumpenamerikaner. Gli Orrendi. Per me, la
caproscopofobia è una ragione persino più forte della semi-agorafobia
per decidere di restare sulla nave quando attracchiamo nel porto. E’ nel
porto che mi sento coinvolto più di ogni altro momento, colpevole di
associazione percepita. Raramente sono uscito dagli Stati Uniti finora, e
mai come membro di un gregge ad alto reddito, e nel porto – persino da
quassù, sul ponte 12, mentre guardo soltanto- ho una nuova e spiacevole
coscienza di essere bianco ogni volta che sono attorniato da molte
persone non bianche. Non riesco a immaginare che idea hanno loro di noi,
gli impassibili messicani e giamaicani *, e soprattutto i chierichetti
non-ariani dell’equipaggio della Nadir. Per tutta la settimana mi sono
ritrovato a fare tutto il possibile per distinguermi, agli occhi
dell’equipaggio della Nadir. Per tutta la settimana mi sono ritrovato a
fare tutto il possibile per distinguermi, agli occhi dell’equipaggio,
dal gregge di caproni di cui faccio parte, per discolparmi in qualche
modo: evito le macchine fotografiche, gli occhiali da sole, i capi
caraibici dai colori pastello; mi do un gran da fare per portare io il
mio vassoio al buffet e sono prodigo di ringraziamenti per ogni mio
servizio. Dal momento che molti dei mie compagni di crociera urlano, io
vado orgoglioso della scelta di rivolgermi a voce bassissima ai membri
dell’equipaggio che hanno una stentata conoscenza dell’inglese.
*E
continuo a chiedermi se i mie connazionali nadriti soffrono dello
stesso esagerato auto disgusto. Dall’alto, guardandoli, di solito
immagino che gli altri passeggeri non sono consapevoli dell’impassibile
sguardo sprezzante dei commercianti locali, del personale di servizio,
dei venditori di foto con lucertoloni, eccetera. Di solito penso che i
turisti miei connazionali sono troppo capronescamente assorbiti da se
stessi persino per accorgersi che qualcun altro ci osserva. Altre volte,
invece, mi sembra di notare che altri americani a bordo provano il mio
stesso vago disagio nell’interpretare il ruolo dell’americano caprone
quando scendono nel porto, ma mi pare che non consentano alla loro
caproscopofobia di decidere per loro: hanno pagato un bel po’ di soldi
per divertirsi ed essere viziati e vivere un’esperienza all’estero, e
quindi col cazzo che permettono a qualche auto indulgente fitta di
proiezioni nevrotiche su come verrà percepita dagli indigeni malnutriti
la loro americanità di togliere checchessia alla loro crociera
extralusso 7NC, per guadagnarsi la quale hanno sudato, risparmiato, e
che hanno deciso di essersi meritati.
Tu, mio ... di Erri De Luca
Sappiamo riconoscere i pesci a mare, le stelle in cielo e dobbiamo ignorare le persone in terra ? da Tu, mio di Erri De Luca (2003).
Rompere il ghiaccio
giovedì 5 luglio 2012
mercoledì 4 luglio 2012
martedì 1 maggio 2012
Ritratto di un uomo con il brain sulle spalle
sabato 14 aprile 2012
Tutte le famiglie sono psicotiche
da Tutte le famiglie sono psicotiche di Douglas Coupland, 2012.
Florian si rivolse a Janet. “Quello che dicevo prima,
che il senso della vita è godere delle cose buone, era solo una menzogna
faceta”. “Sono felice di sentirtelo dire.” “Per quel che ne so, Janet, la vita
non è che una serie di perdite, e a ogni perdita c’è bisogno di spostare tutto
l’arredamento della mente, gettare via delle cose, poi c’è un’altra perdita, e
si continua così, in un ciclo infinito.” “Sembra che tu mi abbia letto nel
pensiero, Florian. La vita taglia come una motosega.” “Non è difficile. Quello
che pensi ti appare negli occhi”. Florian finì il cocktail. “Quando l’hai
capito per la prima volta?” “Ero un’ingenua. Credevo ciecamente al copione che
mi avevano consegnato. E poi un giorno, nei primi anni ottanta, mi sono fermata
a un semaforo rosso a Vancouver, e ding! Ho capito all’improvviso che ormai mi
trovavo nella colonna “meno” della vita, e che la colonna “più” era finita. E’
strano come a volte ti rendi conto solo molti anni dopo di quanto profondamente
ti abbiano colpito determinati eventi. E tu?”. “Per me è sempre stato così. La
perdita, la sensazione delle cose che scivolano via. non il denaro, quello non
conta, perché sembra che sia lui a cercare me. Ma tutto il resto: scivola,
scivola, e a un tratto è andato”.
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