Confesso di non aver mai capito perché tante persone siano
convinte che una vacanza divertente significhi mettersi infradito e
occhiali da sole e avanzare come formiche in un traffico infernale fino a
stazioni turistiche rumorose, calde e affollate, per assaggiare un “sapore
locale” che è per definizione rovinato dalla presenza di turisti. Questo potrebbe (come continuano a sottolineare i
miei compagni di festival) essere tutta una questione di personalità e gusti
precostituiti: il fatto che non mi piacciano le stazioni turistiche significa
che non capirò mai la loro attrattiva e di conseguenza sono forse la persona
meno indicata a parlarne (della presunta attrattiva). Ma visto che comunque
questa nota a piè di pagina quasi certamente non sopravvivrà all’editing del
giornale, ecco qua: Per come la vedo io, probabilmente fa davvero bene all’anima
essere un turista, anche solo se una volta ogni tanto. Non bene nel senso di
rigenerante o ravvivante, però piuttosto nel senso di truce, sguardo di
ghiaccio, guardiamo-in -faccia-la realtà-e-ritroviamo-il-modo-di-affrontarla. La
mia esperienza personale non è stata che viaggiare per il Paese ti apra la
mente o ti rilassi, né che i cambiamenti radicali di posto e contesto abbiano
un effetto salutare, bensì che il turismo internazionale sia radicalmente
asfissiante, e umiliante nel modo più duro possibile: ostile alla mia fantasia
di essere un individuo vero, di vivere in qualche modo al di fuori e al di
sopra di tutto. ( E adesso la parte che i miei compagni trovano particolarmente
infelice e repellente, un modo certo per rovinare il divertimento dei viaggi di
piacere:) Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri americani
dell’ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai
avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare,
per mero ontologia, quell’incontaminatezza che si è andati a sperimentare.
Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi
non –economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli
ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se
stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente
rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta.
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