sabato 3 novembre 2012

Considera l'aragosta di David Foster Wallace


Confesso di non aver mai capito perché tante persone siano convinte  che una vacanza  divertente significhi mettersi infradito e occhiali da sole e avanzare come formiche in un traffico infernale fino a stazioni turistiche rumorose, calde e affollate, per assaggiare un “sapore locale” che è per definizione rovinato dalla presenza di turisti. Questo  potrebbe (come continuano a sottolineare i miei compagni di festival) essere tutta una questione di personalità e gusti precostituiti: il fatto che non mi piacciano le stazioni turistiche significa che non capirò mai la loro attrattiva e di conseguenza sono forse la persona meno indicata a parlarne (della presunta attrattiva). Ma visto che comunque questa nota a piè di pagina quasi certamente non sopravvivrà all’editing del giornale, ecco qua: Per come la vedo io, probabilmente fa davvero bene all’anima essere un turista, anche solo se una volta ogni tanto. Non bene nel senso di rigenerante o ravvivante, però piuttosto nel senso di truce, sguardo di ghiaccio, guardiamo-in -faccia-la realtà-e-ritroviamo-il-modo-di-affrontarla. La mia esperienza personale non è stata che viaggiare per il Paese ti apra la mente o ti rilassi, né che i cambiamenti radicali di posto e contesto abbiano un effetto salutare, bensì che il turismo internazionale sia radicalmente asfissiante, e umiliante nel modo più duro possibile: ostile alla mia fantasia di essere un individuo vero, di vivere in qualche modo al di fuori e al di sopra di tutto. ( E adesso la parte che i miei compagni trovano particolarmente infelice e repellente, un modo certo per rovinare il divertimento dei viaggi di piacere:) Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri americani dell’ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mero ontologia, quell’incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non –economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta.





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